“Leggére imbarcazioni reggono meglio il mare di un transatlantico”: dopo aver deciso nel 2004 di registrare il mio bimensile di poesia, Edizione dell’Autrice, ne ho annunciato così la nascita al Salone dell’Editoria di Pace di Venezia. Con questo nome già da qualche anno distribuivo già le mie raccolte poetiche ‘scomode’ sul territorio veneziano, pubblicate dieci anni dopo dal Comune di Venezia. Ma le parole sono fatte per andare subito nel mondo, nell’immediatezza, per incidere e partecipare alla vita della città, non per attardarsi nel calcolo delle opportunità dell’editoria terza, quella che viene dopo l’autore e la sua opera.
L’abitudine artigianale ad impaginare nella forma più povera e immediata la produzione poetica recente per distribuirla il giorno dopo nel corso di letture nei campi, nei bar e nei luoghi più diversi ha trovato nella registrazione come testata giornalistica la formula che ne dà memoria e tutela, sancendone la continuità. Finalità: una comunicazione in forma integralmente poetica che interpreta in soggettiva quello che avviene intorno, nessuna introduzione, niente nota critica, ma invece un’immagine nata assieme alla raccolta: autoeditando infatti scelgo (l’autoeditoria è in primo luogo una scelta) impaginazione e formato. La distribuzione è “eventuale”, cioè nel corso di eventi, incluse fiere e mercati.
Certo, nell’ agenzia dove lavoro da tanti anni le parole hanno gittata infinitamente maggiore e arrivano dall’altra parte del globo, ma cucire una ad una le copie di questa microscopica testata mentre la distribuivo oltreoceano è stato un taglio sulla tela: quale distribuzione è più certa e duratura di quella che l’autore porta sempre con sé? Soprattutto, autoeditando è possibile scegliere il tempo esatto in cui mettere al mondo la parola, l’adesso o il dopo, e l’occasione. Oggi Edizione dell’Autrice è arrivata al trentesimo numero, del 2009 la collana dei Racconti per Venezia, sguardi sul passato per capire l’oggi, del 2010 i Libretti Rotanti. Dai siti www.edizionedellautrice.it e www.autoeditoria.it, e in qualche sito amico, si scaricano integralmente e gratuitamente. Un lusso? Un bisogno professionale irrinunciabile, come quello di cercare di capire come mai oggi e come mai a Venezia.
Qui, nel 1494, Aldo Manuzio, fondatore dell’industria editoriale moderna, inizia la sua attività incarnando “la funzione principale dell’editore: la creazione del libro come entità di contenuto, forma estetica e realizzazione materiale”. E qui, oggi, si sta verificando il divorzio dell’autore/autrice dall’editore e lo sposalizio di entrambe le figure in una: frugali rassegne dedicate all’autoeditoria promosse a Venezia (come Aut Aut – Autrici e Autori Autoprodotti realizzato nel 2007 da Unica Edizioni di Claudia Vio e Scoletta dei Misteri, biblica estensione di Edizione dell’Autrice, a Io m’edito, tu medita – comunicare davvero fa bene e funziona del 2007, M’Editare 2009 – l’autoeditoria si presenta, M’Editare 2010 – Autoeditoria e dintorni, promossi da Edizione dell’Autrice e la collaborazione di Unica, Realtano, Poesia Comunità Mestre) hanno dimostrato che le opere esistono, vengono al mondo, al di là del circuito ufficiale.
Precedenti illustri: il dissenso sovietico e quello in ambiente vittoriano. Cos’hanno in comune le Samizdat, l’editoria clandestina su carta carbone che passava di mano in mano, e la “scandalosa” Virginia Wolf? Entrambe fecero ricorso all’iniziativa personale per far circolare opere che altrimenti non avrebbero visto la luce. Le Samizdat (in russo: edito in proprio), diffondevano clandestinamente in Urss, Cecoslovacchia e Polonia le opere censurate dal regime sovietico, mentre la scrittrice inglese impose la propria scrittura trasgressiva attraverso la Hogarth Press, casa editrice indipendente, alla faccia del sistema conservatore che la soffocava, ma non tutte le Samizdat erano edite dagli stessi autori e i Wolf pubblicavano anche scritti d’altri, anche se sempre “autori che condividevano con lei questo sguardo nuovo”. Pubblicati dagli autori erano anche i 50 esemplari di Xenia di Montale del 1966, Le rime petrose e Le più belle poesie di Alda Merini uscite a tiratura limitata nel 1983, così come i Poemi di Palazzeschi del 1909 dove il nome dell’editore era quello della sua gatta, Blanca. Sarebbe importante, è un invito all’Università, avviare una ricognizione su altri esempi, anche antichi, proprio a partire da Venezia: per saltuario che sia l’atto di editare se stessi, è importante infatti capire il rapporto tra scrittura ed urgenza di comunicare, tra opera edita in proprio e pubblico, tra i contenuti originali e la successiva mediazione indotta nell’editoria terza. Con M’Editare ho cercato di dar valore anche alla singola autopubblicazione di autrici e autori, perché l’atto di indipendenza è sempre prezioso. Un privilegio, intanto, l’essere apparse nell’ Editare se stessi che Alessandra Pagan ha pubblicato con Sinopia sull’autoeditoria veneziana.
La novità dell’autoeditoria continuativa, non occasionale, è che l’autore/autrice pubblica soltanto se stesso/a con una presa in carico totale della parola a propria misura, un’azione che afferma il diritto costituzionalmente sancito ad esprimersi liberamente, un diritto che si infila nel mondo come aria sotto la porta. Non è un caso che sia stata avvertita a Venezia, dove pregi e difetti della produzione e della distribuzione culturale sono pienamente rappresentati. Da una parte, infatti, abbiamo una città ideale per spazi e modalità di comunicazione “a dimensione umana”, accoglienti palazzi e campi raccolti che consentono di presentare nei modi più fantasiosi i prodotti della superstite e raffinata editoria artigianale, e un marchio, quello di Venezia, che dovrebbe di per sé rendere interessante tutto quello che vi si produce. Per contro, su Venezia, vetrina dove tutto passa e si consuma, una spietata concorrenzialità invade spazi fisici e opportunità mediatiche, confinando il locale al senso più restrittivo. Eppure: dove mai, se non qui, tutto è invece glocal? A far da sbarramento, una logica industriale che implementa opere editoriali totalmente già finanziate o di già garantito acquisto, che possono contare su promozioni spesso di natura istituzionale: nessuno si sottrae a far da suggello ad operazioni di successo, chiavi in mano.
L’autoeditoria si insinua in questi vuoti pneumatici come una gocciolina di mercurio, se la schiacci esce da un’altra parte, rifuggendo la normazione che l’editore, soggetto relativamente recente nella storia della parola scritta, nel Novecento ha imposto anche attraverso il curatore editoriale, l’editor, che rivede trame, personaggi, dialoghi. L’autrice/autore che si autoedita estende in maniera quasi logica la propria funzione autoriale, sviluppata a volte – come nel caso di Edizione dell’Autrice – come reazione alla censura. La pratica di autoeditarsi riporta in primo piano l’azione comunicativa: una sola copia venduta, e financo regalata, figurarsi poi se riprodotta e distribuita dal lettore, segna il successo. È il principio dell’omeopatia: più esigua è la quantità, maggiore è l’effetto. Ma, per funzionare, il processo deve essere puro, biodinamico, senza fertilizzanti (gli input dell’editore che commissiona quello che si ritiene vada di moda) né anticrittogamici (togliere quello che può scontentare qualcuno). Nasce per coltura del seme originario, per ricerca, desiderio e bisogno di chi scrive, e questo motiva la fatica di gestire in prima persona il processo editoriale, pensando e realizzando ogni passaggio del percorso produttivo, sobbarcandosi ogni fatica, costo, opzione possibile.
Non si può quindi confondere il gesto dell’autore che assume in sé la funzione editoriale con l’ editoria a pagamento, che in qualche caso si nobilita garantendo di non “scadere nell’autoeditoria” in quanto i testi “passano una durissima selezione”: c’è qualcosa di nuovo nel riproporre tetti di vetro? L’autoeditoria non va confusa neanche con i peraltro puntuali servizi tipografici che via internet forniscono “servizi di grafica e stampa digitale, editoriali, correzione bozze, autoedizione, ecc.”: toppa chi li classifica come autoeditoria, rimproverando a quest’ultima, nella confusione, di essere un “baraccone ciucciasoldi per poveretti scrittori imberbi o meno”. Né è autoeditoria la pratica commerciale del self-publishing, dove il soggetto editoriale terzo si accolla “l’impresa di gestire la catena di lavorazione del prodotto grezzo (il testo), portandola a compimento fino alla confezione del libro, al quale offre una vetrina promozionale”, che in autoeditoria chi scrive compie da sé. Se già si annuncia che il selfpublishing sarà uno degli elementi vitali del Salone del Libro di Torino, è tuttavia a partire anche dalle esperienze di autoeditoria nate nel veneziano che l’esigenza degli autori è stata messa a fuoco ed è da qui che, in diversi casi, la si mutua, massifica, commercializza. Il termine selfpublishing è usato in modo improprio: a chi si riferisce quel 'self'? Non è chi scrive a svolgere la funzione editoriale, quindi, semplicemente, non dovrebbe chiamarsi selfpublishing. Sembra quasi che l’autoeditoria pura faccia paura, che debba essere riassorbita nel mare dell’anonimato per poterla esorcizzare. Tutt’altro che commerciale era invece il Self-Publishing Movement delle cui origini si discute in internet, basato soprattutto sulle affinità, sul sentire comune, sul desiderio di cambiamento, con radici almeno nella Beat Generation ed assimilabile negli aspetti collettivi alle autoproduzioni di movimento delle quali chi autoedita con continuità ha in gran parte fatto già da tempo esperienza attiva, le donne in particolare per effetto di povertà. Eredi diretti di quel movimento sono semmai i siti internet che praticano self-publishing allargato, come il www.realtano.it di Leschiutta-Borrelli. A tutt’oggi i dizionari confermano il ruolo centrale dell’autore nella pratica autoeditoriale, ma lo condizionano all’applicazione della tecnica informatica: l’autoeditoria sarebbe la “forma di editoria che vede l’autore stesso utilizzare strutture informatiche per la produzione e la diffusione delle proprie opere” (Hoepli) o “l’editoria che non utilizza canali convenzionali ma permette agli autori di servirsi specialmente di strutture informatiche per produrre e promuovere le proprie opere” (De Mauro). Ma che avrebbero detto i puristi della lingua visitando la Rassegna della Microeditoria di Chiari dove, oltre ad Edizione dell’Autrice e ad Unica Edizioni, c’erano la Casa Editrice Libera e Senza Impegni di Federico Zenoni e la Troglodita Tribe S.p.A.f. (Società per Azioni felici) di Fabio e Lella, che a mano riassemblano in pluralità di copie uniche gli scarti dello spreco altrui trasformandoli in nuove opere? Dove le Stelle Cadenti continuano a vendere la carta prodotta a mano sulla quale Nicoletta Crocella stampa le proprie poesie? Prodotti fragili, indimenticabili, dove la qualità – non lo standard – e perfino l’intenzione fanno la differenza. “Possiamo vivere in un giardino fertile e vibrante di opere che si evolvono in continuazione – scrivono – non opere richieste da una ricerca di mercato dell’editore”.
La pratica di autoeditarsi (difficile oggi da tradurre in inglese, perché assomma la funzione sia dell’ ‘editor’ che del ‘publisher’: selfeditpublishing?) riporta in primo piano l’azione comunicativa: una sola copia venduta, e financo regalata, figurarsi poi se riprodotta e distribuita dallo stesso lettore, segna il successo. In www.edizionedellautrice.it (presto sarà riassorbito nell’attuale www.autoeditoria.it) stampando fronte-retro si ottiene l’esatto originale cartaceo: è l’invito alla filiera corta dell’ideale equosolidale, lo stimolo concettuale a collaborare alla distribuzione, forzando la “cooperazione testuale” del ‘Lector in fabula’ di Umberto Eco. La distribuzione è invece il tallone d’Achille dell’industria editoriale, la quale per definizione deve smaltire grandi quantità che, passati i primi mesi, scompaiono dagli scaffali: il guadagno è a monte, i depositi costano e il riutilizzo delle giacenze è inibito all’autore, il quale, perso il copyright, non ha più mezzi per promuovere l’opera, che diventa introvabile, gli sfugge, non è più sua. Il ricorso al digitale commerciale o al misto digitale/cartaceo potrebbe abbattere legittimamente quei costi anche senza definirsi ‘self’, invece confonde le acque (è a partire anche dalle esperienze di autoeditoria nate nel veneziano che l’esigenza degli autori è stata messa a fuoco ed è da qui che, in diversi casi, la si mutua, massifica, commercializza) per accattivarsi autori che talora ancora pagano anziché essere pagati. E forse cavalca anche l’inquietudine di vertice che la gente possa davvero far da sé: ad esempio, quando internet non dovesse funzionare. L’opera autoedita infatti viaggia con te, ti rappresenta, la gestisci nel modo che credi, realizza appieno, fino in fondo, la libertà di esprimersi. Sempre che tu ci creda, che tu conosca il valore di quella libertà, al di là del “diventare famoso” che neanche la più accorta operazione di marketing garantisce. Nell’ “editoria creativa casalinga” praticata da Troglodita Tribe “esiste un diverso concetto di successo editoriale e non si basa sull’avere successo ma sull’essere successo, nel succedere passo dopo passo, libro dopo libro. Succede. Fortunatamente succede ancora”.
Per certi versi, un inno alla decrescita: ridotti i grandi appalti editoriali, finiti gli uffici stampa multimilionari e i benefit, con meno sicurezze, senza fondi le rassegne dei soliti noti... be', la comunicazione sembra sbloccarsi. Anche se con qualche trabocchetto, riprende a scorrere. (Antonella Barina) |